Appunti sulla parola scenica
Senso tra voce e linguaggio
Di Chiara Amplo Rella
Ferdinand de Saussure, iniziatore della moderna linguistica generale, distingueva, nell’ambito del linguaggio, due diverse dimensioni: la lingua come struttura e la parola come insieme di variazioni, sostenendo il lavoro del linguista doversi concentrare esclusivamente sulla prima. Da bravo strutturalista, proponeva cioè di studiare l’aspetto sincronico (stabile, almeno nel senso di contemporaneo) del linguaggio e non quello diacronico (storico-evolutivo) come invece avevano fatto i grammatici a lui antecedenti: la struttura del sistema linguistico, insomma, e non le modificazioni sempre in opera in esso. Con langue intendeva indicare la dimensione sociale, intersoggettiva del linguaggio, essendo la parole secondo lui legata piuttosto all’uso particolare che ogni individuo fa di questo sistema comune. Il nucleo fondamentale del fenomeno linguistico era, nella sua teoria, il segno, costituito da due elementi fondamentali: significato (concetto) e significante (immagine acustica del concetto), legati tra loro da una relazione arbitraria. L’arbitrarietà di questo rapporto non consiste in una dipendenza dalla volontà dei soggetti parlanti, ma anzi nel fatto ch’esso è innecessario ed immotivato, ossia deriva da una serie di circostanze che avrebbero potuto verificarsi, non verificarsi o verificarsi differentemente portando a risultati diversi. In altri termini: l’idea di ciò che chiamiamo “albero” potrebbe essere indicata dalla parola “tetto” o da qualsiasi altra. La linguistica di Saussure riguarda principalmente la produzione orale, non la scrittura, ch’egli considera un sistema di segni distinto da quello della lingua avente l’unica funzione di rappresentare quest’ultima. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, la sua predilezione per la langue non è esattamente negazione del valore della parole, ma della sua importanza scientifica. Non è che egli pensi il linguaggio come entità stabile e immutabile, ma crede nella possibilità di studiare soltanto gli elementi strutturali presenti in esso in un dato momento. Egli compie, cioè, un atto di astrazione di questi elementi dalla concretezza della vita linguistica.
Più tardi altri pensatori francesi, per certi versi debitori delle sue riflessioni, avranno molto da dire e da ridire sull’impostazione di un discorso che condiziona largamente ancora oggi lo studio del linguaggio. Jacques Derrida, ad esempio, cercherà di restituire alla considerazione del linguaggio la dimensione temporale per evitare l’equivoco di considerare i mutamenti, le differenze, come anomalie estrinseche ad un sistema di per sé omogeneo, pur assorbendo la critica saussuriana ad una grammatica di stampo relativista-evolutivo. Proporrà, insomma, un approccio né storicista né strutturalista all’essenza del linguaggio, considerandolo non come semplice forma bensì come sostanza stessa del pensiero e tenterà di riabilitare filosoficamente, tra l’altro, il dispositivo della scrittura, o almeno un certo tipo di scrittura, quella non servile, quella che porta con sé una radicale protesta verso l’impero della logica. Perché questa argomentazione ruota tutta attorno alla messa in discussione del logos come unica possibilità linguistica – e quindi come forma mentis privilegiata. Gilles Deleuze, infatti, in Logica del senso sentirà il bisogno di introdurre il concetto di senso nell’ambito di una riflessione sulla proposizione, la quale dagli specialisti viene comunemente analizzata secondo tre dimensioni riconosciute: designazione (rapporto tra proposizione e cose esterne), manifestazione (rapporto tra proposizione ed il soggetto che attraverso questa si esprime) e significazione (rapporto tra proposizione e concetti). Come già riconosciuto da Saussure, quest’ultima, si noti bene, non riguarda quindi le cose (referenti che appartengono alla realtà extralinguistica) bensì le idee delle cose, ragion per cui il suo valore logico non sta nella sua verità o veridicità, ma nella sua condizione di verità. La significazione non si oppone dunque al falso, ma all’assurdo, cioè a ciò che manca di significazione e che non può dunque essere né vero né falso. Il senso, invece, è per Deleuze trasversale alle altre tre nozioni, anzi, più che uno degli elementi del linguaggio, esso ne è prodotto, effetto. Secondo il filosofo, il senso è un extra-essere che si situa tra il possibile e l’impossibile ed è per natura doppio. Esso comprende, in qualche modo, anche il cosiddetto non senso, ben diverso dall’assurdo che non significa. Il non senso così considerato è in poche parole un gioco di senso, una mobilità di senso tutt’altro che insensata. Insomma, in breve, quello a cui Deleuze mira è svincolare l’idea di senso dalla sudditanza incondizionata alla logica, al discorso prosastico, al buon senso (che legge gli eventi come unidirezionali) e al senso comune (che interpreta le cose come dotate di identità precise e definibili). Il senso, dunque, non coincide per lui con il significato, ma è in rapporto con esso, non ne è privo. In questo modo egli intende anche liberare il pensiero dalla schiavitù del logos e delle sue categorie, ricordando ad esempio come le vette più alte della filosofia di Nietzsche si esprimano nel linguaggio dell’aforisma e del poema.
Il linguaggio è certamente una delle caratteristiche e delle possibilità umane più complesse e sorprendenti, studiato negli ambiti più disparati, del quale qui ho solamente inteso delineare qualche tratto che possa servire da impulso al dipanarsi della questione che mi sta a cuore. Che cosa ha a che vedere tutto questo con il teatro? Moltissimo, se si tratta di un teatro parlato, che si trova per forza di cose a fare i conti con la produzione linguistica, con i disagi e con le potenzialità che comporta. Che si trova, qualora vi sia una concreta profondità di ricerca, a porsi le domande: il linguaggio è un limite o un mezzo? Quale tipo di linguaggio è il più adatto al teatro? E al mio teatro? Che cosa voglio, se voglio, comunicare in scena con le parole che pronuncio? E perché?
Secolo teatralmente densissimo, il Novecento ci offre l’esempio di esperienze estremamente ricche e diversificate anche dal punto di vista del ruolo del linguaggio nell’arte scenica. Da una parte abbiamo il modello del teatro di regia affermatosi, appunto, nel corso del secolo passato, che, fin dai suoi esordi naturalistici di fine Ottocento, è, almeno per quanto riguarda la corrente maggioritaria, fortemente connesso con l’idea di testo come entità unitaria a priori da rappresentare in scena grazie principalmente alla sua comprensione da parte del regista. Questo modello, dunque, mentre rivendica l’autonomia dell’arte scenica, ne implica la sudditanza al testo. Una fra le importanti eccezioni a questa tendenza è sicuramente il regista-pedagogo Stanislavskij, il quale rinnova il rapporto tra testo-regista-attore, approfondendo l’aspetto psicologico ed emotivo dell’interpretazione attoriale e lasciando un segno indelebile nella storia della recitazione. Dall’altro lato, nello stesso secolo che aveva visto imporsi il suddetto modello, c’è l’avventura innegabile e ormai riconosciuta del superamento del teatro di regia (avvenuto forse proprio attraverso lo sviluppo dell’idea di responsabile unico dell’evento teatrale insita nella figura del regista) che porta con sé anche una più originale considerazione del parlato scenico. Per semplificare: mentre si va (o si torna) verso un teatro d’attore, sempre più capace di essere regista e autore di sé stesso, si rende necessaria per l’attore stesso la ricerca di un linguaggio suo proprio non più esattamente identificabile con quello del testo. Questa ricerca linguistica risulta, tra l’altro, estremamente connessa con l’idea di un intenso allenamento corporeo. Ciò avviene nel secondo Novecento sia attraverso il lavoro di alcuni gruppi di ricerca (quali quello di Grotowski o il l Living Theatre), sia attraverso l’emergere di figure uniche di attore-autore-regista (due grandi esempi nostrani: Dario Fo e Carmelo Bene). Già Antonin Artaud aveva, con potenza e radicalità visionarie che non hanno forse uguali, affermato, tra l’altro, l’insufficienza del linguaggio discorsivo a teatro e la necessità di una parola scenica di cui privilegiare le qualità sonore e musicali rispetto alla dimensione del significato. Ed è stato poi Carmelo Bene a proporre la messa in atto della destrutturazione scenica della lingua. Il suo lavoro, se vogliamo schematizzarlo, si può riassumere in due punti fondamentali: monologo e voce. Monologare, per Bene, significa assumere su di sé tutte le voci dell’evento, significa debordare l’io psicologico tramite le trasformazioni della voce: è l’esperienza dell’unità del molteplice, oltre i confini esistenziali delle identità separate. E la strumentazione fonica è, in questo caso, l’ausilio tecnologico al superamento del soggetto. In favore dell’emozione. Sempre parlando di monologo, accanto alla strada metafisica e poetica appena delineata c’è quella validissima di una narrazione monologante di ascendenza popolare e giullaresca. È la strada, per intenderci, indicata dal leggendario spettacolo Mistero buffo (1969) di Dario Fo. Significativo dal punto di vista linguistico è in questo spettacolo l’uso del grammelot. L’attore imita sonorità di lingue straniere senza che esse rimandino ad alcun valore semantico, fonde diversi dialetti padani (lombardo-veneto-friulano) ed arriva alla vera e propria invenzione di parlate sulla base del richiamo a cadenze e sonorità dialettali; il tutto sapientemente arricchito dall’impiego onomatopeico di fonemi e gruppi di fonemi. In questi casi la comunicazione, la comprensione stessa del linguaggio verbale (presente eccome, anzi straripante nel flusso continuo di un discorso in sé asemantico) avviene proprio grazie alla collaborazione di tutti i dispositivi comunicativi non verbali e paraverbali: vocalità (suoni onomatopeici, diversificazione timbrica, ritmica e tonale), mimica, postura, movimento, gestualità. Il risultato esilarante è che pur non capendo niente si capisce perfettamente tutto!
È chiaro che non c’è, non ci deve essere, una sola via, né un solo modo giusto di fare teatro. La differenza è, in arte e non soltanto, indubbiamente una ricchezza. La varietà di stili, di poetiche e di pratiche è un bene: una cosa non esclude l’altra; anzi si possono a volte trovar contatti e reciproci stimoli fra punti di vista apparentemente distanti, mentre distanze essenziali separano moventi ed effetti di scelte a prima vista vicine. Ma sono convinta anche che sia necessario (ed anche responsabile) distinguere e distinguersi per cercare un pertugio nel calderone della chiacchiera omologante qualunquista e nevrotica che caratterizza la nostra epoca, per offrire e condividere ancora intatta una gemma di vita con tutte le sue contraddizioni e le sue ambiguità. La mia direzione non è quella di un teatro del testo. Non sono le idee di uno scrittore a dover essere riproposte in scena con devozione, poiché oltretutto non è nell’atteggiamento di riverenza che si esprimono il rispetto e l’amore per un testo letterario. L’arte teatrale non consiste certo nella sudditanza ad un’altra opera d’arte – pensata o no in modo specifico per il teatro - da prendersi come struttura stabile. Certo, il rapporto tra teatro e letteratura può essere fruttuosissimo. A patto che si tratti, appunto, di un rapporto, di una relazione. Le possibilità del lavoro drammaturgico sono molte e tentarne qui una casistica non avrebbe senso. Basti dire che, laddove vi sia un testo di partenza, ritengo necessario il lavoro di appropriazione e rielaborazione del testo, che può essere gioiosa, ma anche sofferta e contrastata, da parte dell’artista di teatro. Altrimenti la funzione della letteratura a teatro risulterebbe equiparabile a quell’astrazione dalla vitalità dell’uso concreto che Saussure caldeggiava – ma almeno il suo scopo era scientifico - con il concetto di langue. Il testo con una funzione prioritaria per l’opera teatrale, struttura già data in partenza, è un fattore di stabilità che rischia di invalidare completamente l’efficacia artistica dell’evento teatrale. Mi piace infatti parlare di teatro di parola e con questa indicazione richiamare alla variazione continua, all’instabilità vitale e singolare dell’espressione linguistica, convinta che sia spesso attraverso l’individualità che si può attingere all’universale. Credo nella capacità della parola di far vibrare attraverso la pelle le corde più profonde dell’anima umana. E ciò mi pare qualcosa di molto semplice e naturale, se solo si riesce ad ascoltare. Credo che il valore estetico della parola scenica sia dato inscindibilmente dal suo significato e dalla sua forma acustica (la quale non è per niente il contenitore vuoto del concetto) filtrate dalle qualità stilistiche della voce che la pronuncia. La proprietà della significazione - cioè il rapporto di coerenza con i concetti - è un aspetto dei più interessanti anche artisticamente, se solo non lo si prende come un dato univoco a priori, scopo principe ed unico di qualsiasi atto linguistico. Perché il significato a teatro non può essere scisso dal suo passaggio attraverso quella forma acustica che è il suono, la concatenazione dei vari suoni, che può variare enormemente secondo molti parametri (accentazione, ritmo, volume, timbro, altezza) e che variando modifica, appunto, anche i valori semantici. Certo, allo stesso modo di un asservimento totale alla dimensione concettuale, uno stile fine a sé stesso può sfociare nel tecnicismo e perdere completamente di pregnanza. Dalla collaborazione dei vari aspetti della parola nasce invece il senso. Ed è l’attore a crearlo, innamorandosi di una combinazione fra le molte possibilità che avrà messo alla prova durante la sua ricerca e che sarà sempre, va da sé, soggetta a trasformazioni e differenze tra una replica e l’altra. In questo senso almeno, l’attore non può non essere anche autore. Ma così facendo egli si fa tramite di infinite possibilità di senso, perché, come cercavo di dire poco sopra, il senso non è un messaggio. E per quanto ci possiamo sforzare, non riusciremo mai a definire il senso di un’opera. Anche perché alla sua vita concorre in buona parte l’attività del ricevente: lo spettatore nel caso del teatro. La parola “senso”, infatti, è portatrice di quella meravigliosa ambiguità tra due idee ritenute quasi opposte: sensibilità e significato. E già questo dovrebbe ricordarci, invece, la loro profonda affinità. Così la parola “estetica”, sia detto tra parentesi, comunemente ormai associata ad un’esteriorità visiva, all’idea dell’immagine, deriva probabilmente dal greco αίσθησις che rimanda più precisamente alla percezione ed alla sensazione. In sintesi: per me, l’attore è uno sciamano. La sua grandezza consiste nell’essere tramite di energie essenziali e profonde. Porta nel cuore un segreto innato, in tutto il suo corpo una competenza guadagnata con l’esperienza, lo studio, l’allenamento. Egli ha per materiale la parola, con tutte le sue proprietà, e per plasmarla ha uno strumento dei più affascinanti perché interno all’organismo umano. La produzione vocale, che avviene attraverso la vibrazione di due minuscole corde, mette in gioco, in effetti, oltre all’apparato propriamente fonatorio, quello uditivo, quello respiratorio e le varie cavità fisiche che fungono da casse di risonanza. Si può proprio dire che essa abbia a che fare con tutto il corpo, con l’organismo nella sua totalità, intrattenendo anche un rapporto strettissimo con l’emotività e con l’affettività umane.
Detto questo, ripeto, ogni tipo di esperimento è lecito. Si può assecondare il significato o cercare di svincolare da esso il significante, metterli l’uno contro l’altro o usare le parole decontestualizzandole e suonandole indipendentemente da qualsivoglia punto di riferimento logico, esperimento effettuato anche da musicisti del calibro di Stratos e Cage. Si può giungere (o tornare) ad una dimensione presegnica - o extrasegnica - della vocalità, propria di tante pratiche non occidentali, come ad esempio il canto armonico. O ancora, senza volersi qui addentrare nell’affascinante e complesso universo delle glossolalie artaudiane, si può tendere alla reinvenzione del linguaggio verso un rifacimento psicofisico totale. In ogni caso, è importante per me che la questione del linguaggio a teatro continui a prosi, considerando anche il rapporto con la cultura in cui ci troviamo, con le sue distorsioni, i suoi limiti, i suoi retaggi, le sue conquiste e le sue strade ancora da percorrere.
Siamo dunque da capo: il linguaggio è un limite o un mezzo? Quale tipo di linguaggio è il più adatto al teatro? O meglio al mio teatro? Che cosa voglio, se voglio, comunicare in scena con le parole che pronuncio? E perché? Non si tratta assolutamente di elucubrazioni lontane dall’esperienza. Sono domande che bruciano nel sangue; sono questioni che riguardano il fatto stesso d’esistere, d’essere al mondo, in comunicazione con gli altri, in solitudini asfissiate dai numeri sociali, in contatti eterni che durano un istante, con tutto l’amore, l’insofferenza, l’inadeguatezza che ci accomuna; e ancora l’amore; con la voglia di un oltre, alla ricerca dell’Altro, che ogni tanto si lascia intrasentire e allora le parole non bastano più. Eppure non se ne può fare a meno, no, di questa libertà schiavista che è il dono del verbo. Non adesso, di certo, qui sulla Terra. Troppo semplice sarebbe negare tutto, o almeno le regole, la grammatica, l’intelligibilità, la comunicazione, almeno la saussuriana struttura. Non si può. Questa catena delle relazioni umane, questo dovere di dire qualcosa che significhi e che rimandi continuamente ad altro, questo bisogno di dire qualcosa non si può eludere. Ferita a morte dalla fredda coscienza di tutti i silenzi sonori perduti in quell’altrove che annuso tra le pieghe della tovaglia imbrattata che è il mondo, so che ho davvero soltanto la parola (e il silenzio). Per il mondo e per l’oltre. Parola di luce e di ombre. Il faticoso piacere della scrittura per tracciare i rigagnoli di un sonoro attutito, remoto; per il domani e per l’ieri, per ricordare il futuro a me e ad un lettore lontano ed ignoto. E il teatro, la sinergia della compresenza, per andare oltre la presenza, per portare oltre la presenza, tramite questa: il qui ed ora con lo sguardo che s’apre sull’infinito. Essere insieme. L’attore e il suo pubblico. Ma non indistinti. L’attore che rispetta davvero il suo spettatore si prende le proprie responsabilità offrendogli alternative espressive, non riproponendogli soltanto ciò che lo spettatore già sa come lo sa. Il semplice assecondare le aspettative del pubblico era chiamato “prostituzione” da Grotowski. E non era certo quello che cercavano Beck e Malina del Living Theatre, né tantomeno (ma questo è già più ovvio) Bertolt Brecht che nella distanza emotiva - non certo nell’assenza di emozione - vedeva forse il mezzo per la libertà. Nel teatro ch’io sogno l’attore è uno sciamano. I partecipanti al rito non devono per forza capire tutto; non è il livello razionale a prevalere. La parola è esperienza. Il teatro di cui parlo, quindi, non può essere una pratica informativa (in cui qualcuno trasmetta a qualcun altro una notizia che quest’ultimo prima non conosceva e che gli è utile conoscere). Il termine comunicazione, inteso in termini psicologici, indica infatti un processo di condivisione e di scambio che si sviluppa attraverso due fattori fondamentali: il contenuto e la relazione. Se prendiamo atto dei processi di comunicazione insiti nell’arte, come è giusto se non si vuol far dell’intuizione un semplice baluardo contro il dialogo, dobbiamo anche considerare e valorizzare l’idea di emozione. E soprattutto la sua intima, realissima efficacia, come momento importante della vita relazionale e quindi anche sociale. Se fino ad ora ho scritto dell’impegno e del travaglio del linguaggio, è conoscendo per esperienza le indicibili gioie che accompagnano questo travaglio nei suoi sviluppi più autentici. E provando un’enorme fiducia nel fatto che ci siano moltissimi esseri umani che di autenticità hanno fame.
Insomma, per sintetizzare, di cosa ho cercato di parlare? Di poesia. Di un teatro di poesia. L’espressione “teatro di prosa”, infatti, riguarderebbe tutto il teatro recitato distinguendolo dal teatro cantato e musicale (come il teatro d’opera). La parola prosa, però, porta con sé il rischio dell’esclusione di alcuni ambiti di ricerca sulla parola scenica. Preferisco allora, per includere le varie prospettive a cui ho accennato e aprire ad altre possibilità, parlare di un teatro di poesia. Non intendo, chiaramente, con questo termine riferirmi soltanto alla messa in scena di letteratura in versi, ma ad una pratica estetica del linguaggio, al gioco ardente sul cromatismo dei sui aspetti, che, avendo come partitura musicale e semantica le parole, incontra nella vocalità attoriale il migliore strumento. Indagare la parola anche nelle sue possibilità acustiche, considerandola come luogo di incontro tra emozione, suono e significato comporta, tra l’altro, la concretizzazione di un coinvolgimento fortemente empatico dello spettatore. Come implicito forse fin dalle origini del teatro e come affermato chiaramente da significative ricerche artistiche contemporanee, la vocalità può essere un vero e proprio strumento musicale per suonare il parlato, la sua bellezza, la sua vita, e aprire così la strada ad un’autentica espansività del senso.
Perché ho discorso di tutto ciò? Perché non credo che la questione riguardi il teatro, bensì la vita; la vita biologica, psicologica, relazionale, sociale, spirituale, empirica e virtuale. Non sono certo la prima a dire che se il teatro non fosse che teatro, esso non avrebbe nessuna ragione di essere. E non sarebbe il caso di versar lacrime sulle sue ceneri.
Bologna, 25 aprile 2013
Chiara Amplo Rella
Bibliografia minima
Gilles Deleuze, Logica del senso (1969), trad. it. di M. De Stefanis, Milano, Feltrinelli Editore, 2009.
Marco De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo (1982), Milano, Bompiani, 1992.
Marco De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni Editore, 2000.
Jacques Derrida, Della grammatologia (1967), Milano, Jaca Book, 1969.
Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (1916), a c. di T. De Mauro, Bari,
Laterza e Figli, 1967.
Alfred A. Tomatis, L’orecchio e il linguaggio (1963), Como-Pavia, Ibis, 2002.
Chiara Amplo Rella, Antonin Artaud e il pensiero del teatro, inedito, tesi di laurea specialistica in estetica, corso di laurea Storia, critica e produzione dello spettacolo. Discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze nel 2011. Relatore Gianluca Garelli.
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